I femminicidi senza ritrovamento del corpo e il processo indiziario
Come si arriva a condannare qualcuno senza che venga ritrovato un cadavere? Gli altri casi oltre a quello di Mariella Cimò e una spiegazione su come gli indizi possano portare a una condanna
Le storie di Roberta Ragusa, Guerrina Piscaglia, Isabella Noventa e Sargonia Dankha
Si tende a pensare che i processi senza un corpo siano un fatto raro e straordinario. Gli stessi avvocati difensori di Salvatore Di Grazia, condannato in via definitiva per aver ucciso sua moglie Mariella Cimò e per aver fatto sparire il corpo, hanno sottolineato in tutti e tre i gradi di giudizio come non si potesse condannare un uomo senza la prova regina, cioè il corpo.
Ma non è vero che non si può. È senz’altro più difficile ma ci sono diversi casi di condanne per omicidio volontario senza il ritrovamento di un corpo.
Solo in Italia, per esempio, ricordiamo quello di Roberta Ragusa. La donna, che abitava col marito e i figli in provincia di Pisa, scomparve un notte di gennaio del 2012. Ben presto tutta l’attenzione si riversò sul marito, che aveva una relazione con la sua dipendente (nonché amica di famiglia e babysitter). Una serie di indizi, oltre alle bugie raccontate agli inquirenti, portarono alla sua condanna definitiva a 20 anni di carcere per omicidio e distruzione di cadavere. Ancora oggi, non si sa che fine abbia fatto il corpo di Roberta. Mentre lui si professa innocente (come tutti).
C’è poi il caso di Guerrina Piscaglia. La donna viveva col marito e il figlio in un piccolo comune in provincia di Arezzo. Il ragazzino aveva una disabilità e la madre se ne prendeva cura con molta dedizione. Per questo la sua scomparsa aveva subito convinto la famiglia che non potesse trattarsi di allontanamento volontario. Indagando si è scoperto che Guerrina aveva una relazione col sacerdote della sua chiesa di riferimento e che è lui che doveva incontrare quando è sparita. Lei non è mai stata ritrovata, lui è stato condannato a 25 anni per omicidio volontario e occultamento di cadavere.
Ma c’è anche Isabella Noventa, scomparsa nel 2016 dopo una cena con l’uomo che frequentava, condannato poi a 30 anni insieme alla sua complice, la sorella.
Ana Maria Henao, colombiana, è scomparsa nel febbraio 2024 mentre era a Madrid. Le indagini hanno portato all’arresto del marito. L’uomo, con il quale Henao era sposata da 13 anni e da cui stava divorziando, avrebbe preso un volo dalla Florida (dove prima vivevano insieme) fino alla Turchia, per poi recarsi in Serbia (suo paese di origine) e noleggiare un auto (richiedendone espressamente una senza GPS). Poi avrebbe guidato fino a Madrid, dove è stato ripreso dalle telecamere mentre usciva dalla casa di Ana Maria con un grosso borsone in mano, proprio il giorno della sua scomparsa.
L’uomo ha detto di aver abbandonato il corpo in Italia, sull’altopiano di Asiago, mentre rientrava con l’auto in Serbia, ma per ora le ricerche non hanno portato frutti.
Gli esempi di persone condannate per aver ucciso qualcuno il cui corpo non è mai stato ritrovato sono tantissimi, in tutto il mondo. Potete farvi un’idea qui.
Ma, soprattutto in passato, era molto più complicato riuscire a condannare qualcuno quando mancava un corpo. Un esempio clamoroso è quello di Sargonia Dankha, 21enne di origini irachene naturalizzata svedese.
La ragazza scomparve in Svezia nel 1995. Fu subito sospettato un pizzaiolo italiano di 42 anni, con il quale Sargonia aveva una relazione (definita "violenta" da molti testimoni). Nel corso delle indagini, i poliziotti svedesi trovarono tracce ematiche e capelli della ragazza nel bagagliaio della Ford Escort rossa dell’uomo e sul suo letto. Non solo, lui avrebbe detto a un suo amico ristoratore "aiutami a nascondere un cadavere fatto a pezzi". Secondo gli inquirenti, il corpo venne smembrato nella cucina del ristorante dell’ex compagno della donna, per poi essere trasportato e scaricato in una discarica.
Subito dopo il presunto omicidio, l’uomo venne arrestato dalle autorità svedesi, per poi essere rilasciato in quanto per la giurisprudenza svedese è molto difficile riconoscere la responsabilità penale di un presunto omicida qualora il corpo della vittima non venga ritrovato. Il ristoratore è poi tornato a vivere in Italia. In Svezia non si sono più occupati del caso (si legge sui giornali che non hanno personale per i cold case). I parenti però hanno chiesto aiuto alla giustizia italiana e l’uomo, ormai ultrasettantenne, è oggi sotto processo proprio in Italia.
Come dicevamo, ormai è quasi impossibile farla franca, anche se si fa sparire il corpo (o ci si prova).
Uno degli ultimi casi, tra i più clamorosi, è quello di Igor Sollai, il marito di Francesca Deidda, scomparsa nel maggio 2024. L’uomo non ha sporto denuncia ma ha dichiarato che la donna si era allontanata volutamente (abbiamo già scritto dei cosiddetti allontanamenti volontari). Ha messo in atto tutta una serie di azioni per depistare (ha venduto l’auto in uso alla donna, con cui è stato trasportato il corpo), ha venduto il divano su cui presumibilmente l’ha uccisa. E poi, intervistato da Chi l’ha visto?, ha raccontato che non poteva dire, per privacy, che fine avesse fatto la donna. Ma che gli inquirenti lo sapevano. Il suo corpo è stato infine ritrovato dopo le incessanti ricerche durate settimane, e lui è accusato di omicidio volontario.
Pensano sempre di essere più furbi, ma non è così.
In sostanza, oggi ovunque scompaia una donna, se è stata uccisa, il colpevole verrà quasi sicuramente individuato. Ce lo prova quel che è tragicamente successo a Sharon Verzeni. Non siamo nei film, non siamo negli anni Trenta, siamo nella vita vera, anno 2024, abbiamo il dna, le telecamere, la tecnologia, le ricostruzioni, abbiamo i cellulari, i testimoni, abbiamo gli indizi. Eppure c’è chi continua a credere di poterla fare franca. Ci vuole proprio un certo ego, eh.
Le legge e il cadavere mai ritrovato
In linea di massima è possibile ottenere una condanna per omicidio anche senza che il cadavere della vittima sia stato ritrovato. Questo tipo di procedimenti è complesso, ma non impossibile: per arrivare a una condanna le prove devono essere particolarmente forti e convincenti, poiché manca l'evidenza diretta della morte e delle modalità del reato.
L'accusa, infatti, deve innanzitutto presentare prove sufficientemente solide per dimostrare che la vittima è effettivamente morta: ciò può essere provato attraverso una combinazione di circostanze, come l'improvvisa scomparsa della persona, testimonianze, la mancanza di comunicazioni per un lungo periodo, assenza di movimenti bancari o al contrario movimenti bancari sospetti, tracce di sangue o altre prove forensi che suggeriscano un evento violento.
Andrà poi provato oltre ogni ragionevole dubbio che l'imputato è il responsabile dell'omicidio: anche senza il cadavere, il P.M. dovrà dimostrare che l'imputato ha commesso l'atto, attraverso prove come dichiarazioni incriminanti, testimoni oculari, immagini, registrazioni, tracce forensi o attraverso plurimi indizi.
Cos’è un processo indiziario?
Normalmente la responsabilità di un imputato va dimostrata con prove, che sono disciplinate dal codice di procedura penale (testimonianze, esame delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie, documenti).
Entrambe le parti processuali, Pubblico Ministero e Difensore, hanno “diritto alla prova” ossia a proporre mezzi di prova nelle forme e con le modalità disciplinate dalla legge.
L’art. 192 del codice di procedura penale stabilisce che:
Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati
L'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti
Mentre le prove si ricollegano direttamente al fatto storico oggetto di accertamento (ad esempio, le impronte digitali dell’assassino sulla pistola) , e sono idonee ad attribuire carattere di certezza allo stesso, l’indizio, isolatamente considerato, fornisce solo una traccia indicativa di un percorso logico argomentativo, suscettibile di avere diversi possibili scenari (ad esempio, si è visto il sospettato nei pressi della casa della vittima, ma vi è l’astratta possibilità che stesse andando altrove).
Gli indizi quindi possono dimostrare un fatto soltanto se sono plurimi, gravi, precisi e concordanti.
La gravità
L’indizio è grave quando la sua capacità dimostrativa è significativa, ossia quando il collegamento con il fatto da provare non è meramente eventuale ma è altamente probabile.
Afferma la Cassazione che
questa caratteristica dell’indizio si pone in rapporto di proporzionalità inversa rispetto al numero di ipotesi alternative teoricamente possibili. Minori sono le interpretazioni alternative del fatto indiziario noto, maggiore è la sua capacità dimostrativa e quindi la sua gravità
La precisione
Deve trattarsi di un indizio dal contenuto preciso e non vago ma dettagliato.
La concordanza
Gli indizi concordanti sono quelli che non contrastano tra di loro e soprattutto non contrastano con altri dati o elementi “certi” risultanti dal processo.
In pratica ciascun indizio deve confluire insieme agli altri in una ricostruzione logica ed unitaria del fatto ignoto.
Pertanto non sono possibili valutazioni frazionate dell’indizio, interpretazioni teoriche non suffragate da riscontri oggettivi, interpretazioni “illogiche” dell’indizio.
Perciò, quando sentirete dire che “qualcuno è stato condannato soltanto sulla base di indizi”, sappiate che a. è previsto dalla legge, b. non si tratta di semplici indizi, ma di indizi gravi, precisi e concordanti, che quindi messi insieme offrono un quadro di quel che è accaduto oltre ogni ragionevole dubbio.
Ricorda il mio nome è un podcast mensile, lo trovi su Spotify, Apple Music, Amazon Music e YouTube. L’ultimo episodio è uscito oggi, 15 settembre 2024, e racconta la storia di Mariella Cimò, il cui corpo non è mai stato ritrovato. Il prossimo episodio uscirà il 15 ottobre 2024 sulle stesse piattaforme. Se ti piace il nostro lavoro, puoi parlarne, condividerlo sui social e lasciare una recensione sulla piattaforma che usi.
Chi siamo
Anna Bardazzi è nata a Prato e dopo più di dieci anni all’estero oggi vive a Milano. È autrice e copy writer e ha pubblicato il romanzo La felicità non va interrotta (Salani).
Su Instagram è @bardazzi.anna
Roberta Sandri è avvocata con studio a Trento, si occupa principalmente di diritto di famiglia, dei minori e della persona. Ha una specializzazione in Scienze Criminali ottenuta presso l’Università Montesquieu di Bordeaux.
Su Instagram è @avvocata.di.famiglia