Crudeltà e stalking
La condanna a Filippo Turetta per il femminicidio di Giulia Cecchettin
Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso, l’11 novembre 2023, Giulia Cecchettin.
La sentenza soddisfa la richiesta del pubblico ministero, ma la condanna ha escluso - diversamente da quanto richiesto - l’aggravante della crudeltà e gli atti persecutori (cioè lo stalking), mentre sono stati riconosciuti l’aggravante della premeditazione e il reato di occultamento di cadavere.
L’opinione pubblica ha gridato allo scandalo per l’esclusione dell’aggravante della crudeltà e per l’esclusione dello stalking.
La nostra newsletter (come il podcast) cerca di analizzare i fatti di cronaca e le questioni giuridiche affinché vengano compresi meglio, anche in una logica di contrasto alla violenza di genere nella società. Capire e conoscere, secondo noi, è il modo più efficace per costruire un dibattito corretto intorno a tematiche importanti.
Queste righe provano a spiegare meglio com’è andato il processo. Abbiamo assoluto rispetto per il dolore della famiglia Cecchettin.
Quando si ha l’aggravante della crudeltà?
Non bisogna confondere il significato che tutti diamo alla parola “crudeltà” e il significato che invece ha in termini giuridici.
L’aggravante della crudeltà è prevista dall’art. 61 n. 4 (circostanze aggravanti comuni) del codice penale che così recita:
l'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone
Come sempre, è la giurisprudenza a circoscrivere i casi in cui si può parlare di crudeltà.
Sostanzialmente, secondo i giudici
“La circostanza aggravante di aver adoperato sevizie o di aver agito con crudeltà verso la persona ricorre quando le modalità della condotta esecutiva di un delitto rendono evidente la volontà di infliggere alla vittima un patimento ulteriore rispetto al mezzo che sarebbe nel caso concreto sufficiente ad eseguire il reato, rivelando in tal modo, per la loro superfluità rispetto al processo causale, una particolare malvagità del soggetto agente”.
Deve quindi trattarsi di una
“condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole; la sussistenza di tale atteggiamento interiore deve essere accertata alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto”.
Per essere ancora più chiare, in tema di omicidio, il giudice, per ritenere la sussistenza dell'aggravante di aver agito con sevizie e crudeltà
“deve preliminarmente procedere all'esame delle modalità complessive dell'azione e del correlato elemento psicologico, poiché, essendo il fondamento della circostanza costituito dall'esigenza di irrogare una maggior pena correlata alla volontà dell'agente di infliggere sofferenze "aggiuntive" rispetto a quelle ordinariamente implicate dalla produzione dell'evento, ai fini della sua configurabilità non possono assumere rilievo elementi di disvalore di per sé insiti nel finalismo omicidiario o in diversa e autonoma circostanza” (Sez. 1, n. 8163 del 10/02/2015, Rv. 262595).
Sostanzialmente, il dolo deve riguardare anche l’aggravante, cioè la sofferenza ulteriore e aggiuntiva deve essere voluta dall’autore.
Ad esempio, è stata riconosciuta questa aggravante in un caso di omicidio preceduto da ripetuti colpi al viso, o in un caso dove i primi colpi sono stati diretti sempre al volto solo come sfregio:
La Corte di Assise di Appello a fondamento di tale aggravante, richiamava ampi stralci della motivazione della prima sentenza di merito, e la riteneva sussistente in ragione del numero dei colpi inferti, della violenza degli stessi, che avevano provocato anche fratture ossee, della sede dei colpi, in massima parte collocati al capo e al volto, al punto che della vittima non era più possibile distinguere la fisionomia ovvero il colore dei capelli.
Ulteriore elemento evidenziato dai giudici di merito per individuare la crudeltà dell'agire dell'imputato era il dato che durante la fase dell'accoltellamento l'uomo aveva trattenuto la moglie per il collo, limitandole il respiro; tale condotta - pur non idonea a provocarne l'asfissiar aveva certamente avuto l'effetto di provocare la frattura della cartilagine tiroidea e di impedire che la vittima reagisse ovvero gridasse.
Come rilevato dalla Corte di Assise di Appello, proprio la condizione raggiunta dall'imputato, che aveva immobilizzato la giovane donna, gli avrebbe facilmente consentito di finirla, strozzandola, oppure di ucciderla con un paio di coltellate penetranti; non vi sarebbe stata la necessità, puntualizza l'impugnata sentenza, di accanirsi crudelmente, di cagionare alla vittima quel surplus di gratuita sofferenza fisica e psichica, che costituisce l'essenza stessa dell'aggravante, consistita nel devastarle il viso con il coltello da disosso e nel farla bersaglio di quaranta stoccate. (Corte di Cassazione 4 luglio 2024 n. 30375)
Nel caso del femminicidio di Giulia Cecchettin, evidentemente i Giudici hanno ritenuto che non ci fosse questa volontà di arrecare ulteriore sofferenza.
È ovvio che un omicidio è crudele, in qualsiasi forma venga eseguito. Ma per avere la specifica aggravante bisogna dimostrare che l’imputato abbia causato e voluto arrecare sofferenze aggiuntive.
Solo la lettura delle motivazioni della sentenza potrà chiarire perché per i giudici non ci sia stata crudeltà.
A nostro avviso, il fatto che l’aggressione si sia svolta in due fasi distinte, con due diversi tentativi di fuga e con colpi anche al viso poteva configurare questa aggravante, ma attendiamo di conoscere le motivazioni.
Perché non hanno riconosciuto lo stalking?
Per quanto riguarda lo stalking, l’art. 612 bis del codice penale prevede
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Perché si abbia stalking, quindi, oltre che le condotte dell’agente (condotte reiterate di minaccia o molestia) deve necessariamente esserci anche il grave stato di ansia o paura nella vittima, o paura per l’incolumità propria o di un familiare o ancora tale da dover modificare le abitudini di vita.
Evidentemente, per i Giudici Giulia Cecchettin non aveva paura. In fondo è uscita con lui, no?
Questa concezione della paura però è davvero troppo “maschile”.
Non si tiene in conto che moltissime persone (quasi sempre donne) cercano di “tenere buono” il loro abuser, che cercano di essere accondiscendenti proprio perché hanno paura.
Giulia Cecchettin non voleva uscire con Filippo Turetta, non ne poteva più. Ci usciva, e lo invitava pure, a volte, perché aveva paura.
Lei diceva alle amiche che aveva paura che lui si facesse del male. Ma probabilmente aveva paura anche per se stessa. Glielo ha scritto: “mi fai paura”. Ci sono però paure che non si riesce ad esprimere a parole, nemmeno con le persone più care.
Probabilmente la norma andrebbe ripensata, quel perdurante e grave stato di ansia o di paura è difficile da dimostrare e va tutto a scapito delle vittime. Una condotta non può essere valutata a seconda della reazione della vittima, ma oggettivamente: 300 messaggi al giorno sono una molestia, non devo essere io, vittima, a dimostrare che avevo paura.
Se Giulia Cecchettin avesse denunciato, non ci sarebbe stato reato perché “ci sei uscita ieri, ci sei andata al concerto, non avevi paura”.
Quando verrà tenuto in conto della psicologia della vittima? Del tentativo disperato di non far arrabbiare l’uomo, di non farlo agitare, di tenerlo calmo? Così com’è la norma non funziona, non tutela le vittime e, lo urliamo gran forza, va cambiata.
Come sempre, quello che ha sottolineato la sorella di Giulia, Elena Cecchettin, è importante: non riconoscere gli atti persecutori in questo processo significa reiterare il problema, continuare a non riconoscere determinati comportamenti che non dovrebbero essere attuati. La legge, solitamente, evolve prima della società: per questo speriamo che questo caso sia significativo per poter rivedere il concetto stesso di stalking.
Siamo abituate e abituati a normalizzare alcuni comportamenti. Ci sembra normale che una persona debba essere tranquillizzata, ci sembra normale che voglia la buonanotte tutte le sere, ci sembra normale che voglia sapere dove siamo, e tutta un’altra serie di piccole e grandi ossessioni che, in quanto tali, dovrebbero allertare.
Filippo Turetta - e come lui chiunque altro - può essere ossessionato quanto vuole, ma questo non deve riversarsi sull’oggetto (parola non casuale) della sua ossessione.
Immaginate di avere un ex ragazzo che vi chiama continuamente; che vuole sapere dove siete; che pretende di essere invitato al compleanno di vostra sorella; che supplica, giocando sul senso di colpa, per avere sempre la buonanotte; che minaccia se avete un’altra relazione; che minaccia continuamente il suicidio. Questa non è violenza? Non è violenza se anche le persone intorno a voi soffrono e sono angosciate perché non sanno cosa fare per impedire che la situazione vada avanti?
In un’intervista, il padre di Filippo Turetta ha sminuito il suo comportamento dicendo qualcosa come ma va’, sì la chiamava, la cercava, ma sono cose normali. La madre, più prudente e forse più consapevole, lo ha interrotto dicendo un generico “non sappiamo cosa succedesse davvero”.
Ancora una volta, la colpa è della società che normalizza certi comportamenti. Come nell’ultima storia che abbiamo raccontato nel podcast: anche in quel caso, la condanna di Salvatore Carfora ha escluso gli atti persecutori. Perché la vittima, Sonia Di Maggio, continuava a fare la sua vita, pubblicava foto sui social, quindi non aveva veramente paura.
Ma intanto lui minacciava di morte lei e il nuovo compagno, girava mezza Italia per trovarla e ucciderla. Forse lei avrà sottovalutato (perché pensi sempre, come probabilmente ha pensato Giulia Cecchettin, che non succederà MAI a te), ma lui ha comunque avuto un comportamento che non dovrebbe essere tollerato e, quindi, che andava punito.
Chiudiamo con una piccolissima considerazione su quello che ha detto durante la sua arringa l’avvocato di Filippo Turetta: che era ossessionato, “un po’ da autistico”. Usare una neurodivergenza per giustificare il comportamento violento del proprio assistito indica una profonda ignoranza che andrebbe colmata.
Preziosissimo resoconto! Grazie
Bellissima analisi, chiara, giusta. Grazie.