Quanti sono i femminicidi seguiti da un suicidio?
La storia di Elisa Amato e gli altri femminicidi di cui si parla meno. La morte di Anastasia Trofimova e di sua figlia Andromeda
Lo scorso anno, proprio il 15 luglio, abbiamo pubblicato il primo episodio speciale. Speciale perché diverso da tutti gli altri. Quando abbiamo iniziato il podcast abbiamo deciso di dare un’impostazione uguale a ogni storia, perché tutte avessero la stessa visibilità, e di scegliere femminicidi il cui processo si è concluso in Cassazione. Questo perché, oltre a ricordare la donna di cui parliamo, vogliamo fornire un quadro più chiaro e completo possibile dei femminicidi, andando ad analizzare come la giustizia ne valuta gli autori e come questi si “giustificano” o difendono, e come vengono difesi. Farlo ci restituisce un’immagine molto più chiara del fenomeno, ma siamo consapevoli che tutte le altre storie, quelle che finiscono col suicidio dell’assassino, hanno molta meno visibilità.
Non solo qui, nel nostro spazio, ma anche in tv, sui giornali e sui social. Non c’è nessuna indagine, nessun processo da cui attingere ogni giorno e dare in pasto al pubblico informazioni (pensate a cosa sta succedendo con Chiara Poggi, a diciotto anni dalla sua morte: ogni trasmissione televisiva non parla che di quello).
Per questo, appunto, lo scorso anno abbiamo deciso di ricordare tre storie finite col suicidio del femminicida: Michela Noli, Martina e Alessia Gargiulo, Ester Pasqualoni.
Proprio in questi giorni si è tornato a parlare - in una piccola nicchia - di Martina e Alessia Gargiulo, e quindi della loro madre, Antonietta Gargiulo, sopravvissuta all’agguato del marito solo per miracolo. I due erano in fase di separazione: lui era un uomo violento e lei aveva deciso di lasciarlo, facendosi anche supportare. Era un carabiniere, e dei medici avevano valutato che potesse tenere l’arma di ordinanza nonostante i giorni di permesso che aveva dovuto prendere per il “forte stress”. Prima di rientrare in servizio era stato sottoposto a visita medica, che aveva accertato che era tutto a posto. Pochi giorni dopo, si era presentato all’alba sotto casa di Antonietta Gargiulo e le aveva sparato mentre andava al lavoro. Poi era salito in camera e aveva sparato alle figlie. Dopo essersi barricato in casa, nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, si era sparato.
Oggi la giustizia ha stabilito che non ci fu colpa nel lasciargli l’arma. Trovate la storia di Antonietta e delle sue figlie qui.
Questa è una storia di cui si è parlato abbastanza, sia perché c’è una sopravvissuta sia perché ci sono due bambine ammazzate dal padre. Ma non se ne è parlato quanto si parla di altre storie, quelle in cui lui non si ammazza: perché quando lui si ammazza, a parte qualche riga sulle “ipotesi del movente”, non resta niente, tutto è certezza. Lui ha ucciso lei.
Ed è così nel 30% dei casi. Non esistono dati ufficiali e questa è una stima che abbiamo fatto rispetto alle informazioni raccolte e al conteggio che teniamo personalmente da fine 2023. Anzi, stando ai dati raccolti da noi nel 2024, su 91 femminicidi sono 20 a essere finiti in suicidio (più due tentativi). Nella maggior parte dei casi si tratta del partner o ex partner, poi ci sono 3 figli e 2 padri.
Numerosi sono gli uomini anziani che si uccidono dopo aver ucciso la moglie: i giornali spesso titolano “si cerca il movente” e poi parlano dei problemi di salute (più spesso di lei, ma anche di lui), a volte c’è la depressione (questa usata di frequente anche per gli uomini più giovani, che però hanno come “movente” più spesso il fatto di essere stati lasciati - poveri, aggiungiamo).
In ogni caso, bisogna dire che i suicidi in seguito a femminicidio sono frequenti soprattutto nelle fasce più alte di età: lo scorso hanno tutti avevano più di 50 anni, tranne tre che ne avevano 45, 39 e 49. Che, probabilmente, significa una cosa: e cioè che gli uomini più grandi che commettono femminicidio sono consapevoli che quel gesto significa la fine della loro vita (e non gliene importa nulla, l’importante è eliminare il problema: anche l’assassino di Michela Noli, seppure più giovane, l’ha spiegato bene in una lettera, “mi uccido per non andare in carcere”).
Ma in ogni caso, alla base c’è sempre la stessa motivazione: la convinzione di possedere la vita di una donna, sia compagna, ex, figlia o madre. Di avere il diritto di decidere della sua vita e della sua morte.
Molte volte si parla di “disperazione”, che sia per l’anziana malata a cui stare accanto o del dolore provocato da una separazione. Prendendo per buoni (per assurdo) questi fattori dovremmo avere un numero ben più alto di situazioni opposte: pensate a quante donne - più longeve - si prendono cura di mariti malati. Pensate a quante donne con bambini piccoli, magari senza avere un lavoro, vengono lasciate e si trovano nella disperazione più completa. Pensate a quante figlie femmine si prendono cura dei genitori anziani. Pensate a quante madri si prendono cura dei figli, anche molto grandi. La statistica ci rema contro.
Eppure quante di queste ammazza e poi si ammazza? La risposta ce l’avete senza andare a cercare.
Oggi è uscita la storia di Elisa Amato. Anche il suo è un femminicidio seguito da un suicidio. Elisa era giovane, non aveva nemmeno 30 anni, e il suo ex era più giovane di lei. Non ha mai accettato la fine della loro storia. Elisa era nata e viveva a Prato, e questo episodio è nato dopo aver conosciuto e collaborato con sua sorella Elena, che da quando Elisa è morta porta la sua storia nelle scuole e ovunque può per accendere i riflettori sulla violenza di genere (potete recuperare la live fatta lo scorso anno con lei e col centro antiviolenza La Nara di Prato qui).
Nell’episodio è Elena, attraverso la sua voce, a raccontarci cosa significa vivere dopo che ti hanno ammazzato una sorella, e non avere nemmeno nessuno con cui prendersela. Perché questo è il femminicidio-suicidio: chi viene uccisa non muore solo una volta, ma due, tre, perché non c’è giustizia, non c’è la risposta ai tanti perché, ai come, non c’è niente a cui attaccarsi. E non c’è il ricordo di nessuno.
E allora noi continueremo a raccontare anche le storie di queste donne morte due volte. Perché il ricordo di Elisa e di tutte le altre continui a vivere al di là della cronaca e della velocità con cui dimentichiamo.
Morte del reo
La responsabilità penale è personale, secondo l'articolo 27 della Costituzione Italiana, e non può essere trasferita ad altri. Questo significa che solo chi commette il reato può essere chiamato a rispondere penalmente.
L’art. 150 del codice penale prevede poi che la morte del reo avvenuta prima della condanna estingue il reato. In caso di omicidio-suicidio, quindi, al più ci sono brevi accertamenti per appurare che non ci siano altre persone coinvolte, dopodiché, tutto si chiude.
Resta semmai aperta la strada del risarcimento civile, in quanto sono disposizioni che si riferiscono non tanto al reo quanto al suo patrimonio, le obbligazioni civili relative al risarcimento del danno nascente dal reato. Serve però intraprendere una causa civile nei confronti degli eredi, se ci sono, e poi aggredire il patrimonio del defunto. Una strada tutta in salita, che spesso non vale nemmeno la pena (economicamente) intraprendere.
Com’era? “È stata la madre, o forse era degrado”
Un mese fa, proprio qui, parlavamo del ritrovamento di due corpi nel parco di Villa Pamphilj a Roma, una donna e sua figlia dall’identità sconosciuta. Ne parlavamo perché subito, dopo il ritrovamento della bambina, i commenti sui social incolpavano la madre. E dopo, quando è stata trovata anche lei (a parte un momentaneo “non è detto che sia sua madre”), si è iniziato a parlare di degrado, del fatto che lei fosse una persona senza fissa dimora che viveva in una tenda nel parco.
Insomma, nonostante ormai siamo abbastanza abituate e abituati a notizie di violenza contro le donne (e bambine e bambini) continuiamo a voler credere a un’altra storia, forse per immaginarci un mondo diverso. Di certo non un mondo migliore, piuttosto un altro mondo di merda ma in cui ehi, gli uomini non hanno colpe, è la vita che va così.
E invece, anche questa volta l’epilogo è il più scontato. A uccidere Anastasia Trofimova e sua figlia Andromeda è stato con molte probabilità (usiamo questa formula) il compagno di Nastia e madre della bimba.
La loro è una storia banale. Di quella banalità di cui parlava Hannah Arendt, che tempo dopo il ricercatore canadese Dupuis-Déri ha usato per raccontare il femminicidio di Hélène Rytmann da parte del marito, il famosissimo filosofo Louis Althusser, trasformandola in “La banalité du mâle”, La banalità del maschio (giocando con le parole mal - male - e appunto mâle - maschio, che in francese si pronunciano allo stesso modo). Proprio perché nei femminicidi si compie la banalità, quella che accomuna tutte queste storie. Che siano storie di violenza o di rifiuti, la matrice e il loro svolgimento sono sempre gli stessi e a pensar male, come si dice, spesso si indovina.
Ecco perché non ci stupisce niente della morte di Anastasia e Andromeda. Ecco perché chi si occupa di questi temi, chi ne conosce bene le dinamiche (e non perché, appunto, pensa male) sapeva già com’erano andate le cose. Non importa sapere come e perché: le risposte le abbiamo già tutte.
E come diciamo molte volte, se a occuparsi delle donne meno invisibili non ci fosse una trasmissione come Chi l’ha visto? molte di queste storie rimarrebbero senza risposta. Ma partiamo dall’inizio.
Dopo il ritrovamento dei corpi, gli inquirenti brancolavano nel buio. Nessuna idea di chi fossero la donna e la bambina. Si ipotizzava che lei fosse dell’est. Poi, grazie alle segnalazioni di privati cittadini , hanno iniziato a circolare informazioni di questa coppia con la bambina, poi dell’uomo da solo. Proprio grazie alla trasmissione (e a chi la segue) si è risaliti al nome dell’uomo, o almeno al suo presunto nome. Questo perché la polizia era dovuta intervenire più volte su segnalazione (ancora) di cittadini preoccupati, e quindi gli erano stati verificati i documenti. Lei, però, non li aveva. Si giurava che la donna fosse statunitense come lui, perché i testimoni dicono che parlasse perfettamente inglese, soprattutto senza un accento dell’est.
Sono state diffuse sempre da Chi l’ha visto? le foto dei tatuaggi della donna, ben riconoscibili e piuttosto unici. È stato solo così che si è risaliti alla sua identità: a Omsk, in Siberia, una madre preoccupata chiedeva a un’amica di famiglia di cercare online informazioni sul compagno della figlia, che diceva di essere un noto regista. Ed era così che si imbatteva sulle foto pubblicate da Chi l’ha visto?.
Anastasia Trofimova era una giovane donna russa nata a Omsk che da qualche tempo viveva a Mosca, dove lavorava. Aveva fatto una vacanza a Malta e lì aveva conosciuto quest’uomo. Rientrando a casa aveva lasciato il lavoro e si era trasferita definitivamente a Malta con lui. Dopo un po’ i due avevano avuto una bambina, nata in casa e mai registrata né al consolato russo né a quello statunitense. La bambina, in pratica, non esisteva.
Erano arrivati in Italia a maggio. Nastia e sua figlia senza documenti, sottratti da lui (imbarcandosi probabilmente su una barca privata), lui con un passaporto valido ma con un nome falso. Avevano vagato per Roma e lei aveva aggiornato continuamente i genitori.
In quei giorni, più volte alcune e alcuni passanti si sono sentiti in dovere di chiamare le forze dell’ordine. Prima perché l’uomo si era reso molesto (tanto da arrivare alle mani con un altro uomo), poi perché era stato visto, ubriaco, da solo con la bambina. Ogni volta, quest’uomo è stato lasciato libero di andare, perché non ritenuto pericoloso, ma solo “alterato”. Perché aveva un passaporto statunitense, ci viene da dire. Anastasia è morta per prima, non si sa ancora esattamente come. Andromeda è sopravvissuta qualche giorno, poi è stata soffocata. Dopodiché, lui ha preso un aereo ed è volato in Grecia come niente fosse.
In questa storia ci sono alcuni punti evidenti su cui è bene soffermarsi:
Quando c’è una donna morta, pensare a un femminicidio equivale quasi sempre a indovinare
Le donne non italiane, le donne povere, le donne considerate ai margini (senza fissa dimora, con dipendenze, sex worker) hanno più possibilità di cadere nell’invisibilità e quindi di avere giustizia
Denunciare qualsiasi situazione di apparente violenza è necessario, anche a costo di farsi definire stalker dalla polizia (come successo alla donna che ha segnalato il padre con la figlia da solo)
Alcuni passaporti hanno più potere di altri, e non dovrebbe mai accadere (viene da chiedersi, se l’uomo fosse stato egiziano, o senegalese, lo avrebbero lasciato andare così?)
In Italia senza Chi l’ha visto? risolveremmo la metà dei casi di scomparsa e omicidio
Nel frattempo l’uomo ritenuto colpevole dei due femminicidi è stato estradato e si trova in Italia. Ipotizziamo che si dichiarerà innocente, dicendo che lei è scomparsa e non ne ha più saputo niente (come ha già detto) e che la bambina boh, sarà sparita anche lei.
Un’altra storia come tante. Altre sorelle che muoiono per mano di un uomo. Ma già smettere di inventarsi soluzioni alternative, quando ci troviamo di fronte a una donna ammazzata, sarebbe un passo avanti.
Riposa in pace, Nastia, stretta alla tua bambina.
Il podcast
Ricorda il mio nome è un podcast mensile, lo trovi su Spotify, Apple Music, Amazon Music e YouTube. L’ultimo episodio è uscito oggi, 15 luglio 2025, ed è un episodio speciale che racconta la storia di Elisa Amato, scritto e narrato in collaborazione con sua sorella Elena. Il prossimo episodio uscirà il 15 agosto 2025 sulle stesse piattaforme, e sarà un altro episodio speciale. Se ti piace il nostro lavoro, puoi parlarne, condividerlo sui social e lasciare una recensione sulla piattaforma che usi.
Chi siamo
Anna Bardazzi è nata a Prato e dopo più di dieci anni all’estero oggi vive a Milano. È autrice e copy writer e ha pubblicato il romanzo La felicità non va interrotta (Salani).
Su Instagram è @bardazzi.anna
Roberta Sandri è avvocata con studio a Trento, si occupa principalmente di diritto di famiglia, dei minori e della persona. Ha una specializzazione in Scienze Criminali ottenuta presso l’Università Montesquieu di Bordeaux.
Su Instagram è @avvocata.di.famiglia
L’uomo che ha ammazzato la mia ex collega ed ex stagista Elena, strangolandola e ammazzandola di botte, si è poi sparato in testa. Lo avesse fatto prima, avremmo ancora Elena. Grazie per questa puntata “diversa”. Mi si spezza il cuore ogni volta a leggervi.